Per i pomeriggi di pioggia


Trama

Un libro della serie Il curioso ricettario di Nonna B

Robbie MacIntyre gestisce un piccolo ufficio postale nel vecchio edificio di quella che era una stazione ferroviaria nella periferia della sonnolenta Barton Hartshorn, a nordovest di Londra. Rimane sbalordito quando la proprietaria, Maggie, una sua cara amica, gli lascia in eredità non solo l’ufficio postale, ma anche l’intera stazione.

Il resto dell’eredità va a uno scrittore americano, Jason Young. Quando l’uomo si trasferisce nel paesino, Robbie rimane frastornato dall’attrazione che prova per la persona che avrebbe più diritti di lui sulla stazione.

A quel punto compare una scatola, che contiene varie prime edizioni rare e un ricettario. Tutto inizierà ad avere un senso solo quando gli ingredienti segreti di una particolare ricetta saranno finalmente svelati, portando alla luce un amore che si è interrotto settant’anni prima.

Traduttore: Emanuela Graziani

Rilasciato il 10 ottobre 2017

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Estatto

Capitolo 1

“ALMENO CI hai provato, Robbie.” Doris mi diede dei colpetti leggeri sulla mano con il suo solito fare rassicurante. Non avevo bisogno di rassicurazione. Mi serviva che quella cavolo di torta venisse bene. Insomma, quanto poteva essere difficile non mandare qualcosa a puttane, quando avevo la ricetta davanti a me?

Punzecchiai con la forchetta quello che era rimasto della torta con la salsa di mele. Il pasticcio emise un chiaro puah mentre collassava su sé stesso attorno al grosso buco che era comparso in qualche modo durante la cottura.

“Ho seguito la ricetta.” E l’avevo seguita davvero, alla lettera. Ogni singola tazza di farina e cucchiaio di burro, ogni cucchiaino di noce moscata… avevo perfino fatto dei calcoli per sapere a quanto corrispondevano due terzi di una tazza rispetto a una intera. Doris mi diede un altro colpetto sulla mano e annuì nel suo modo più confortante.

“Maggie ha fatto questa torta per quasi novant’anni. Non ti deve per forza riuscire bene la prima volta.”

Il petto mi si strinse per il dolore, che si attorcigliò dentro e attorno al mio cuore. Maggie Simmons era stata la ragione per cui ero rimasto in quel paesino. Quando tutti i miei amici se ne erano andati per trasferirsi in città o anche nella cittadina accanto, io ero quello che era tornato a casa con una laurea in arte e nessuna idea su cosa farci e poi era rimasto. Tre anni di studi, laureato con il massimo dei voti ed ero perso. Maggie mi aveva bloccato vicino alla cabina telefonica un lunedì mattina, parlandomi, senza darmi modo di intervenire, del suo cairn terrier, che continuava a rannicchiarsi tra le mie gambe mentre lei chiacchierava, la pelle del guinzaglio che mi si avvolgeva attorno ai pantaloni. Ricordo chiaramente quel giorno come il momento in cui la mia vita cambiò.

“Ho comprato il vecchio edificio della stazione ferroviaria,” aveva spiegato, e io dovevo aver risposto qualcosa di molto educato. Ero sempre educato, e Maggie mi piaceva. Dopotutto, lei non era soltanto un’istituzione a Burton Hartshorn, era anche un’indomabile forza della natura e aveva un braccio con cui faceva dei lanci perfetti. Se dovevo essere onesto, mi aveva spaventato anche un po’. Ricordo la frutta marcia che aveva tirato contro di me e altri due amici con una precisione millimetrica quando ci aveva beccato a cercare di rubare le mele dal suo piccolo frutteto. Il fantasma del dolore sul viso a causa del colpo della mela mi aveva fatto premere le dita sullo zigomo e reprimere un sussulto.

“Sto costruendo una biblioteca,” aveva aggiunto.

“Dove?” Di certo non lì a Burton Hartshorn, trecento anime che abitavano una zona poco conosciuta? Perché ci sarebbe servita una biblioteca quando potevamo andare a Buckingham per usare quella che c’era lì? Ricordavo l’eccitazione per la gita alla biblioteca con mio padre, nella sua scintillante Ford Mondeo. Le biblioteche sono file e file di scaffali che si allargano a macchia d’olio, pieni di ogni libro immaginabile; non sono posti minuscoli in culo alla luna.

“Non proprio una biblioteca,” mi aveva confidato in quel giorno d’estate. “Potremmo spostare lì l’ufficio postale quando Silvia andrà in pensione, a Natale, e ci sarebbero dei tavoli, tè e caffè da un piccolo bancone, e un’area lettura con grossi divani comodi. Potremmo organizzare un programma di scambio di libri e forse pubblicizzarlo con la scuola.” Ricordo l’espressione assorta sul suo viso. Anche allora, dieci anni prima, era vecchia. Beh, vecchia come appare qualsiasi persona sulla settantina e ottantina a qualcuno appena uscito dall’università.

“Sembra una bella idea.” Allora mi era sembrato di liquidarla con una falsa lode, e forse era stato così. Quello che aveva proposto era veramente una bella idea. Non ero mai tanto felice come quando avevo il naso in un libro, del tè accanto e forse un paio di biscotti al cioccolato su un piatto. Aggiungeteci della pioggia contro la finestra ed ero in paradiso. Certo, un fidanzato accanto a me, con la testa nel mio grembo, sarebbe stato la ciliegina sulla torta. All’improvviso, qualsiasi cosa Maggie mi stesse dicendo si era mischiata con la fine recente di un amore universitario.

“Beh, volevo parlarti,” aveva continuato, sottolineando ogni parola con uno strattone al guinzaglio del cane, finché il groviglio attorno alle mie gambe non era stato così intricato che non sarei mai riuscito a muovermi. “Adesso sei tornato, e mi serve qualcuno che gestisca questo posto. Non guadagneresti molto, bada bene, ma ci sono delle stanze all’ultimo piano e potresti farne ciò che vuoi.”

“Prego?” avevo chiesto, stupito.

“Mi piace tua madre,” aveva detto, un po’ impaziente. “Mi ha detto che sei senza radici, e che costruire qualcosa attorno ai libri e alla storia e alla famiglia sarebbe stata un’idea eccellente. Ha suggerito una piccola area adibita a galleria per i tuoi dipinti, e penso che sia un’idea adorabile.”

Vorrei essere stato in grado di concentrarmi su ciò che c’era di positivo in quella frase, ma ai tempi ero riuscito solo a provare rabbia verso mia madre che credeva che non avessi radici. Solo perché restavo a letto fino a tardi la mattina e mi stavo fissando con i programmi TV del pomeriggio non significava che non le avessi. Solo perché in quel momento non stavo dipingendo non voleva dire che non avrei potuto farlo se avessi voluto. Giusto?

Con un ultimo strattone del guinzaglio mi ero liberato dalla costrizione della pelle, ma non mi ero allontanato. Maggie mi stava tentando con un lavoro. Doveva essere così. Mi ero lanciato un’occhiata intorno per vedere se qualcuno ci stesse osservando. Lo sguardo mi era caduto sulla bellissima, vecchia stazione. A forma di elle, era vicina allo scavo profondo dove una volta la Great Central Main Line faceva correre i treni a vapore da Londra a Manchester. Accantonata negli anni sessanta, la stazione era andata in rovina finché un birrificio non aveva cercato di trasformarla in un pub. Non so come diavolo avessero pensato di costruirsi una clientela con il Red Lion dall’altra parte del paesino. Non era durato molto, e negli ultimi dieci anni o giù di lì la stazione era stata data in affitto, con un avvicendamento rapido dei locatari.

“È un posto bellissimo.” Maggie sembrava nostalgica.

Il tetto coperto di paglia aveva bisogno di essere riparato, le finestre bianche dovevano essere ritinteggiate, e la porta blu scuro mostrava tre mani scrostate di sfumature diverse. E il giardino era selvatico. Non solo per le erbacce, ma anche per lo sfoggio magnifico di verde e oro autunnali che non mancavano mai di farmi fermare a guardare. Non che i fiori mi piacessero così tanto, ma tutto l’effetto, con il tetto di paglia e le finestre con le lastre montate su piombo e l’aria generale di abbandono, in qualche modo catturava la mia immaginazione.

“Proprio bellissimo.”

“Ho ereditato dei soldi e l’ho comprata, è giusto che tu lo sappia. È mia in modo permanente, un piccolo posto che potresti trasformare in una casa.” Aveva parlato in modo cauto e mi stava fissando con un’espressione determinata.

“Vuole che gestisca l’ufficio postale?” La vita reale si era rimessa al passo con la mia fervida immaginazione, nella quale restauravo tutto da solo quella che una volta era la stazione trasformandola proprio in ciò che voleva Maggie. Grosse querce proteggevano dal sole il giardino sul retro, e l’edera si estendeva dalla costruzione principale a un piccolo ampliamento degli anni settanta con dei lucernari. Immaginai di strappare l’edera fino a esporre la bellissima muratura originale in mattoni di quella stazione straordinaria.

“Non solo l’ufficio postale,” aveva continuato lei. “Francobolli, pacchetti e posta, e un piccolo negozio che offra beni essenziali. Come bustine da tè, latte, senape e Marmite.”

Non avevo fatto smorfie per la strana combinazione di ciò che Maggie pensava fossero beni essenziali. Anche se odiavo quando finivo la Marmite e il mio toast restava privo di quella crema a base di estratto di lievito. “Senape. Marmite. Okay.”

“E il bar,” aveva aggiunto. “Con una piccola biblioteca, bei libri e tanti romanzi. Forse qualche DVD. Quando potresti iniziare?”

Ero rimasto lì immobile per un po’, poi mi ero anche accucciato per fare le coccole al cagnolino solo per prendermi del tempo per pensare. Nessuno sapeva quanti soldi avesse Maggie, ma lei ovviamente ne aveva abbastanza per pensare di comprare il vecchio edificio che una volta era stato la stazione di quella linea ormai in disuso. Non era un tipo solitario che nascondeva i soldi, ma non era neanche appariscente, e nessuno sapeva molto su di lei. Era la spina dorsale solida e calibrata di quel paesino benché in qualche modo restasse riservata. Il suo cottage, chiamato giustamente l’Apple Tree Cottage, con il suo frutteto, era proprio al centro della vita della piccola comunità, di fronte al laghetto delle anatre e alla piazza del paesino. Il cottage stesso risaliva a trecento anni prima e, quando ero piccolo, si vociferava che Maggie avesse la stessa età.

“Ho un colloquio all’ospedale per gestire l’archivio dei pazienti. Domani.” Volevo che si rendesse conto che avevo delle opzioni.

Lei aveva annuito. “Bene, bene. Non è proprio adatto a te, però, eh?”

Io? Bloccato in un ufficio con dei computer? No, non mi ci sentivo portato, ma pagavano bene e c’era una mensa per il personale con gli sconti. L’affitto a mia madre, benzina nell’auto, soldi sufficienti per comprarmi birra e materiale per disegnare, e sarei stato felice. A parte sacrificare otto ore al giorno per cinque giorni a settimana a quel lavoro brutto ma sicuro, ecco.

Non so cosa mi spinse ad accettare. Ma davanti a me si allineavano all’infinito lunghe giornate estive in cui non avrei avuto idea di cosa volevo fare, e non desideravo proprio accettare quel lavoro d’ufficio. Volevo del tempo per dipingere, vivere e fare qualcosa di speciale.

“No,” avevo risposto poi. “Posso iniziare subito.” Quelle parole l’avevano fatta sorridere, e prendere quella decisione è stata la cosa migliore che io abbia mai fatto.

Ecco come era andata allora, e ormai erano passati quasi dieci anni, durante i quali ero stato la presenza principale in quel posto speciale. Estirpare l’edera per rivelare la storia era stata la parte facile. Rifornire di merce, fare interventi di manutenzione, raccogliere fondi… quelle erano state le parti difficili. E tutti i giovedì mattina, Maggie veniva con le sue amiche, che conosceva tutte da sempre, e si sedeva con loro a parlare e bere tè, si scambiavano libri e rendevano il mio mondo un posto perfetto.

La mia arte era buona, avevo anche venduto alcuni pezzi e guadagnato abbastanza da mettere via qualche soldo dopo essermi comprato una macchina. Non so per cosa stessi risparmiando. Probabilmente in vista di quello stesso futuro nebuloso che avevo sempre cercato.

Poi c’era stato l’ultimo mese. La fine era arrivata all’improvviso. Maggie non era venuta al suo incontro di chiacchiere e torta del giovedì, ma era passata a trovarmi il venerdì seguente e mi aveva detto a bruciapelo che il suo tempo era scaduto e che a novantun anni aveva fatto la sua parte. Aveva lasciato la stazione e l’aveva legata a un qualche tipo di strano contratto di proprietà per il futuro, e quel lascito era importante per lei tanto quanto le sue creature.

L’avevo ascoltata parlare, e ogni parola si era annodata dentro al mio cuore a formare un’assurda palla di dolore, ed era rimasta proprio così. Il giorno in cui avevamo seppellito Maggie Simmons era stato soleggiato e luminoso. Le quattro settimane passate da allora erano state le più strane della mia vita. Non avevo un ragazzo al momento. Anzi, se dovevo proprio essere onesto con me stesso, non ne avevo avuto uno vero da oltre un anno. L’ultimo, Josh, basso, biondo e subdolo, era stato quello che mi aveva fatto passare la voglia di uomini per un’eternità. La sua abilità di rovinare tutto mi aveva lasciato diffidente e stanco dell’ambiente, delle sere fuori, del bere e del ballare e del mettersi in mostra. Volevo solo pace, volevo il mio paesino nella campagna del Buckinghamshire e volevo leccarmi le ferite e trovare quello giusto.

“Stai bene?” chiese con dolcezza la signora Patterson. Ritornai di colpo al presente e rimisi a fuoco lo sguardo sulla torta. Quella con la salsa di mele era una delle torte cotte al forno più richieste di Maggie nel piccolo bar. Assieme a un antico bollitore che fischiava e a dei bellissimi piattini e tazze di porcellana spaiati, la torta era parte di Maggie e del negozio: era gustosa, pezzetti di mela e una vena di cannella in ogni boccone, sempre perfetta. Lei aveva scarabocchiato una ricetta per me andando a memoria, ma ovviamente qualcosa doveva essere andato storto.

“Volevo solo fare qualcosa di carino.” Quello era il primo giovedì dopo il funerale che si erano di nuovo incontrate tutte. Ormai cinque invece di sei, c’erano state lacrime e risate ricordando i bei tempi. Era così che Maggie avrebbe voluto essere onorata dalle cinque donne che si definivano amiche.

“E noi ti vogliamo bene per questo,” disse la signora Patterson. “Maggie avrebbe riso,” aggiunse con un occhiolino sfacciato. La signora Patterson era senza dubbio una a cui piaceva flirtare. Un paio di nodi dentro di me si sciolsero gradualmente, e io liberai il respiro che mi si era incastrato nel petto. Erano lì a parlare di Maggie, a ricordarla, e anche se era fallito miseramente il mio tentativo di fare lo stesso, non aveva importanza. In qualche modo, durante la preparazione di quella cavolo di torta di mele, ero passato dal dolore all’accettare la perdita della donna a cui guardavo con lo stesso affetto che avevo per mia nonna.

“Sì.” La punzecchiai di nuovo, e la torta si sgonfiò ancora di più. “Avrebbe riso.”

Quando se ne andarono erano quasi le cinque, e io ripulii e lavai le stoviglie e le posate. Ogni pezzo di porcellana aveva il suo posto nella piccola cucina, e mi rilassai sul serio solo quando fu tutto in ordine. Probabilmente avevo bisogno di uscire quella sera. Sarei potuto andare a Northampton, avrei potuto incontrare Tim o Jack, amici dell’università, o anche Anna, una mia compaesana, che era stata la mia complice quando eravamo ragazzini liberi di riempire di divertimento ogni giorno dopo la scuola.

Svuotai la teiera dall’acqua che era rimasta e la rimisi sui fornelli. In qualche modo calcolai male la distanza e il fondo produsse un rumore metallico sulla piastra del fornello, la vibrazione dell’urto che mi correva lungo il braccio.

“’Fanculo,” sbottai, perché era quello che faceva ogni essere umano quando degli oggetti inanimati gli si ribellavano. Nessuno chiese cosa c’era che non andava, nessuno lo avrebbe fatto. “Che triste bastardo del cazzo, a parlare da solo,” borbottai.

Poi, con la convinzione che quella serata sarebbe migliorata con la birra e degli amici, salii fino alla mia camera da letto con la vista sugli ettari di campi verdi. Sarei uscito e avrei celebrato la vita di Maggie a modo mio: prendendomi una signora sbronza e parlando di cavolate con chiunque mi fosse stato a sentire.

Mi feci la doccia, scambiai parecchi messaggi con Jack su quale pub fosse il migliore e decisi cosa mettermi. Erano ormai quasi le sette. Trovati chiavi e portafoglio, chiusi a chiave l’edificio della stazione e mi diressi alla macchina, notando che a un qualche uccello bastardo era sembrata una grande idea battezzare i lucidi sportelli color argento.

“La storia della mia vita.”



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