L’unico giorno facile - Santuario libro II


Una ragazza morta, un testimone spaventato e due uomini con l’addestramento da Navy SEAL. Che inseguano la giustizia o la vendetta, il confronto tra loro non potrà che avere esiti… esplosivi! 

Dale MacIntyre, ex Navy SEAL e agente del Santuario, si finge il collaboratore di un membro importante della famiglia Bullen, ed è vicino a ottenere le prove che è stata quest’ultima a ordinare la morte di Elisabeth Costain quando… qualcuno si mette sulla sua strada.

Joseph Kinnon, Navy SEAL in servizio, torna a casa dopo molti mesi di missione e si trova a dover affrontare la tragica notizia della morte della sorellastra, uccisa con un colpo di pistola da uno sconosciuto in un vicolo.

È determinato a scoprire chi sia l’assassino quando… qualcuno si mette sulla sua strada. Entrambi gli uomini vogliono la stessa cosa, ma hanno metodi diversi per ottenerla. Entrambi vogliono vedere la famiglia Bullen alla sbarra, ma uno cerca giustizia, l’altro vendetta.

Ciò che succede tra loro, comunque, non ha nulla a vedere né con l’una né con l’altra.

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Reviews

Il romanzo è scorrevole, ben ritmato (grazie alle indagini che stanno portando avanti e ai nemici che cercano di impedirgli di arrivare alla verità), inoltre ritrovare Nikolai e Morgan è una piacevole sorpresa. Attendo ora di leggere il terzo di questa serie, che già dalla trama promette davvero bene - emozionifralepagine.wordpress.com/

Excerpt

Capitolo 1

“Capo, localizzaci per il CAS.” L’ord

ine fu passato lungo la linea, appena udibile sopra il rumore degli spari, e arrivò all’orecchio del secondo capo scelto Joseph Kinnon. Il tenente si trovava bloccato più in alto lungo la ripida salita. Era costretto a stare giù a causa delle scariche di proiettili AK47 che crivellavano le rocce della montagna, ma il messaggio arrivò forte e chiaro. Erano intrappolati e solo l’aiuto del Close Air Support li avrebbe tirati fuori da quel puttanaio.

Joseph era di gran lunga il più vicino alla banda di talebani inferociti, così strisciò sulla pancia fino al punto di osservazione, pochi centimetri sotto a un masso sporgente e decisamente troppo esposto per i suoi gusti. Dopo aver valutato la distanza, fece il percorso inverso per riferire l’informazione.

“Danger close, cinquecento,” comunicò spiccio, per poi scivolare di fianco quando alcuni colpi vaganti fecero saltare la roccia alla sua sinistra e scavarono un buco nell’oscurità.

Il ragguaglio risalì in fretta la fila e la conseguente decisione tornò indietro altrettanto rapidamente. Nonostante la squadra fosse inchiodata così vicino al bersaglio, non c’era altro modo di lasciare quella posizione: dovevano far intervenire il CAS e rischiare di essere decimati dal fuoco amico, oppure lasciarsi sterminare dal folto gruppo di talebani che si avvicinava sempre più. Joseph pregò Dio che il pilota che guidava l’F-16 fosse preciso al cento per cento. Per colpa di un pessimo tempismo, una pattuglia di nemici si era trovata a percorrere il loro stesso sentiero nel medesimo momento, e ora la piccola unità di SEAL ne stava pagando lo scotto: avevano preclusa sia la possibilità di risalire la montagna che quella di proseguire, mentre il giornalista che erano venuti a recuperare si era appiattito contro la parete con il viso sconvolto dall’orrore. Erano bloccati, ma sarebbe bastata una bomba ben piazzata al centro delle forze talebane per permettere alla squadra di sei e al giornalista di raggiungere il punto di estrazione.

Joseph e il terminal controller si scambiarono rapide occhiate. Dexter era il suo miglior amico, e il loro rapporto risaliva a molto prima il periodo del BUD/s, come era comunemente chiamato l’addestramento dei SEAL. Joseph annuì. Sapeva esattamente cosa stesse passando per la testa del compagno mentre comunicava al comando le dieci cifre delle loro coordinate sulla mappa. Lo vide anche aggiungere che erano in ‘danger close’, la formula usata internazionalmente per segnalare ai piloti la prossimità degli amici rispetto al bersaglio.

Dexter si rannicchiò mentre i talebani concentravano il fuoco sullo sperone alle sue spalle. Non potevano conoscere la sua posizione esatta, ma anche sparando a casaccio, spedivano i proiettili un po’ troppo vicino per stare tranquilli. Joseph rotolò sul fianco e concentrò il tiro sulle vampe provenienti dalle forze sotto di loro. Sperava solo che fosse sufficiente per dare a Dexter il tempo di completare il messaggio con la radio UHF.

Per finire, l’amico trasmise una comunicazione a tutti i membri della squadra. Il tenente annuì e segnalò di tenere bassa la testa. La bomba sarebbe arrivata fra tre minuti. Joseph non smise di sparare ai suoi bersagli e per tutto il tempo che ancora li separava dalla fatidica frase ‘bomba sul bersaglio’ sia lui che il resto della squadra si sarebbero assicurati che l’attenzione fosse rivolta su di loro.

Liberare il reporter era stato relativamente semplice. Catturato dai talebani, era stato tenuto in ostaggio in una casa sicura fra le montagne dell’Afghanistan. L’intelligence aveva avvisato le forze americane circa la sua posizione e si era cercato di stabilire lo schema con cui agivano i sequestratori. Una volta individuato, Joseph e i suoi erano stati infiltrati a tre miglia dal bersaglio, dall’altra parte della montagna. Si era trattato, per gli standard dei SEAL, di un’estrazione semplice, e il giornalista ne era uscito non solo vivo, ma anche quasi del tutto illeso.

A quel punto però era andato tutto a puttane. Per colpa di nient’altro che pura e semplice sfortuna, erano stati bloccati da un numero soverchiante di dannatissimi talebani che, servendosi delle loro armi leggere, li avevano inchiodati con un fuoco di sbarramento. Fottuti, ecco cos’erano! Dexter segnalò ‘uno’ a Joseph e ai compagni. Era arrivato il momento: o se la sarebbero cavata oppure sarebbe stato un disastro, oltre che un modo assurdo di andarsene. Fuentes era sdraiato sopra il giornalista, i loro volti schiacciati contro la parete, rannicchiati dentro un crepaccio naturale scavato fra le rocce. Dexter rotolò e si nascose fra i macigni disseminati tutt’intorno. Il tenente e il resto della squadra continuarono a sparare finché, uno alla volta, non raggiunsero un riparo. Non aveva senso allertare i nemici smettendo di fare fuoco all’improvviso, e alla fine rimase solo Joseph a sparare nel buio a intervalli irregolari. Lanciò un’occhiata a Dexter, che alzò il pugno e poi aprì la mano. Joseph contò alla rovescia e quando finalmente arrivò a uno si riparò a sua volta, raggomitolandosi su se stesso, la testa incassata fra le braccia e ogni centimetro del suo corpo nascosto dalla roccia afgana.

L’assenza di rumori rivelò che la bomba da cinquecento libbre stava piombando sul bersaglio, e quando colpì i talebani, lo fece in modo rapido e letale. L’onda d’urto schiacciò i timpani di Joseph, che chiuse gli occhi senza volerlo. L’aria attorno ne fu come lacerata e il rumore di un violento boato scosse la terra. Facendo volare in alto i detriti, lo spostamento d’aria si abbatté sopra la squadra, ma non c’era il tempo di fermarsi e controllare se il lancio avesse colpito o meno il bersaglio. Joseph, il più vicino ai ribelli, fu il primo a rimettersi in piedi e, fucile alla mano, scivolò giù per il pendio sassoso. La bomba aveva svolto il proprio compito, ma a lui non interessava fermarsi a contare le vittime. Voleva un completo via libera perciò, dopo aver messo a segno alcuni colpi, indicò al resto del team che poteva seguirlo. I talebani rimasti continuavano a sparare loro addosso; niente che i SEAL non potessero affrontare eludendoli e correndo con il giornalista nel centro. Dexter chiamò l’elicottero per il recupero, e non appena Joseph si stravaccò sul ponte del CH-47 Chinook, chiuse gli occhi. Ci sarebbero voluti giorni prima che l’udito gli tornasse normale. L’elicottero si alzò, poi cominciò un volo regolare sopra gli altopiani afgani.

“Allora,” fece Dexter con un grido che penetrò nei timpani danneggiati dei compagni, “sto pensando di chiedere a Emily di sposarmi.”

Ed eccola: la normalità che tornava dopo aver affrontato morte e distruzione. Era ciò che facevano i SEAL: combattevano, salvavano vite, ed erano i migliori. E, alla fine della giornata, erano ancora vivi. Ascoltando il suo migliore amico ricevere i consigli dei compagni su quale fosse il modo migliore di fare la proposta, Joseph sentì una fitta al petto. L’adrenalina stava piano piano scemando e la realtà della vita si insinuava di nuovo in ogni sua cellula.

Un appartamento vuoto e una dormita lunga un mese. Il pensiero del sonno andava bene, ma l’idea dell’appartamento vuoto? Quella faceva schifo.



* * * * *



Il ponte del C-17 era gelato e non per la prima volta nelle ultime otto, infernali ore, Joseph desiderò avere due materassini sotto di sé anziché uno. Avevano lasciato la base di Ramstein da cinque ore, ma ciò significava che ne mancavano almeno altre due o tre prima di atterrare alla stazione navale di Oceana sulla East Coast. In teoria avrebbe dovuto dormire ancora perché era l’unico modo con cui riusciva a sopportare quei momenti di pausa forzata, ma il sonnifero che aveva preso, l’Ambien, doveva aver perso da tempo la capacità di farlo riaddormentare, e ormai era completamente sveglio. Tutti erano ansiosi di tornare a casa ma, in momenti come quello, Joseph avrebbe voluto possedere il potere magico di sbattere le palpebre e ritrovarsi nel proprio letto. Lo spazio angusto del cargo era inevitabile se voleva arrivare presto, ma lui era un uomo d’azione e l’incarnazione di ogni singolo cliché del genere. Non era il tipo di persona che se ne stava seduta tranquilla, lui era quello che marciava insofferente avanti e indietro. Lui non camminava, lui correva. Ma, in quel frangente, non aveva altra scelta che fare buon viso a cattivo gioco finché non fossero atterrati. Tuttavia, era abbastanza stanco da permettere che qualche legittima lagna sul freddo, il cattivo odore e i dolori filtrasse attraverso le maglie del suo stoicismo.

Il fianco gli faceva male perché ci aveva appoggiato sopra il peso durante il trasferimento sopra l’oceano da Basram fino alla Germania e poi, a sole poche ore di distanza, sull’aereo diretto verso gli Stati Uniti continentali. Era un SEAL e il suo corpo era abituato a sopportare di tutto, certo molto di più che la scomodità di dormire dentro un cargo C-17. Il pensiero di tutto ciò a cui normalmente sottoponeva il proprio fisico e la quantità di dolore che era in grado di tollerare lo divertì in modo particolare in quel momento, quando l’unica cosa a cui riusciva a pensare era quanto si sentisse indolenzito ovunque.

Per fortuna, la vibrazione dell’aereo si era attenuata non appena avevano raggiunto la quota di crociera. Odiava il modo in cui il pulsare dei grossi motori gli scorreva dentro e gli sbatacchiava le ossa. Aveva ventisei anni e i doloretti di un quarantenne.

Maledicendo l’insonnia rotolò su se stesso per spostare il peso dal fianco sofferente, ma si fermò quando sentì qualcuno dietro le spalle. Non ricordava chi avesse occupato quello spazio, ma dal modo di russare pensò che dovesse trattarsi di Dexter. Il suo migliore amico gli guardava le sei, come sempre da quando avevano completato insieme il BUD/s. A denti stretti e con il conforto del respiro di Dex, Joseph rilassò muscolo dopo muscolo, ignorando risolutamente la cintura della mimetica che gli si conficcava nella carne. Alla fine riuscì a trovare quel luogo dentro di sé che gli permetteva di addormentarsi abbarbicato sulle rocce o dentro alle caverne, mentre il cielo era striato dalle scie degli attacchi aerei. Si spostò all’interno di quello spazio unico e vitale in cui si rifugiavano i soldati delle zone di guerra, lo spazio nel quale speravano di essere al sicuro.

Il cambiamento del rumore prodotto dal motore fu la prima indicazione che avessero raggiunto gli Stati Uniti, e in un attimo Joseph si ritrovò completamente sveglio e vigile. A quanto pareva, e con sua enorme sorpresa, era riuscito a farsi qualche altra ora di sonno. Fu colto dalla smania fortissima di mettere di nuovo piede sul territorio americano e si stirò in tutta la sua altezza per sciogliere un po’ i muscoli. Dormire in un letto, mangiare cibo che non dovesse essere tirato fuori dalla plastica e riprendere fiato: ecco in cosa sarebbero consistiti i successivi trenta giorni. Solitudine o meno.

“’Nculo.” Le parole furono borbottate nel dormiveglia e quello fu il primo segnale che Dexter si stava riprendendo dallo stordimento indotto dal sonnifero e dagli antidolorifici. Joseph si girò verso l’amico e non seppe trattenere una risata quando posò lo sguardo su di lui. Un frammento di roccia l’aveva colpito in pieno viso, e tra lividi e sbucciature era messo piuttosto male. La zona attorno al naso era talmente gonfia da impedirgli di aprire completamente gli occhi, che teneva semichiusi.

“Sei messo peggio di una merda pestata,” commentò Joseph beffardo.

“’Nculo,” ribadì Dexter.

“Emily ti guarderà e deciderà che le conviene sposare me.”

“Non il tuo culo gay,” ribatté l’altro.

Joseph scoppiò in una risata. Tutta la sua squadra era a conoscenza delle sue preferenze sessuali. Non che fosse così aperto con tutti, ma la fiducia era fondamentale nei SEAL. La squadra reggeva la tua vita nelle proprie mani. Anzi, era la tua vita. Nessuno dei membri della sua unità lo giudicava per qualcosa che non fossero le sue capacità, oppure con altro in mente se non la consapevolezza che un giorno avrebbero potuto morire gli uni per gli altri.

Tutt’intorno i compagni cominciarono a mettere via i sacchi a pelo e gli zaini e Joseph lanciò un’occhiata ad Adams, che era ancora in balia dei postumi del miscuglio micidiale sonnifero/alcol, ma che riusciva lo stesso, chissà come, a esibire un accecante sorriso a trentadue denti. Il C-17 si inclinò per prepararsi all’atterraggio e Joseph prese posto. Toccarono terra con delicatezza, il movimento oscillatorio mentre frenavano fu leggermente frastornante, ma l’arresto vero e proprio assolutamente perfetto. Il cargo si fermò all’una precisa di notte e la piccola unità smontò stancamente.

Joseph si scoprì a pensare di non essere mai stato tanto contento come in quel frangente che ai SEAL non venisse mai richiesto di condividere l’aereo, se non con qualche unità di supporto. Scendere in sei era decisamente molto più semplice che farlo insieme a un carico di truppe. Non appena la suola dei suoi anfibi toccò l’asfalto, Joseph si riempì i polmoni della fresca aria della Virginia. Rimasero tutti immobili per qualche secondo e lui ne approfittò per osservare i compagni. Escludendo Dexter e il suo naso, la squadra, più per bravura che per fortuna, ne era uscita praticamente illesa. Il modo in cui anche tutti gli altri si erano fermati significava che non era lui il solo a essere felice che fossero tornati vivi.

Le reazioni dei vari membri all’arrivo andavano dall’eccitato al rassegnato al troppo stanco per prenderne atto. Succedeva sempre così quando atterravano. Senza scambiarsi una parola, il gruppetto si incamminò verso l’hangar principale dove ciascuno avrebbe trovato il modo di arrivare ovunque dovesse andare. Qualcuno, come lui e Dexter, aveva degli appartamenti nelle vicinanze; altri avevano affittato delle stanze in case più grandi. L’importante, quando non erano in congedo, era che risiedessero a non più di un’ora dalla base, nel caso dovessero essere richiamati all’improvviso. Lui e Dexter camminavano fianco a fianco mentre si dirigevano tutti verso il punto di raccolta.

“Cazzo, c’è il comandante.” L’esclamazione colorita di Fuentes, l’ultimo acquisto del gruppo, fece fermare Joseph di botto e gli strappò una specie di brivido.

Le parole erano intrise di quella reverenza tipica della recluta che trova il comandante ad aspettare il loro rientro. Joseph si fece subito attento e cercò di capire su chi, fra i compagni, l’uomo stesse indirizzando lo sguardo. In genere la squadra aveva il tempo di riprendere fiato prima che cominciassero le stronzate ufficiali, ma la presenza del comandante, che li scrutava silenzioso, poteva significare solo una cosa: qualcuno avrebbe ricevuto brutte notizie.

Doveva essere successo qualcosa mentre erano in missione segreta e per uno di loro la vita era cambiata.

“Merda.” Nonostante il naso rotto, Dexter pronunciò la parola molto chiaramente e con una nota di paura nella voce. Oltre alla fidanzata storica, aveva anche entrambi i genitori e cinque tra fratelli e sorelle, ognuno con i relativi compagni e figli. Cazzo, Joseph sperava davvero che non riguardasse lui.

Il tenente fece cenno alla squadra di fermarsi, poi si affrettò verso il comandante per parlargli in privato. Scambiarono qualche parola, quindi l’uomo si voltò verso di loro con un’espressione rassegnata in viso.

“Capo Kinnon,” disse con voce ferma. “Segui il comandante.”

Joseph si sentì cadere il mondo addosso, e allungò il braccio per stringere quello di Dexter. L’amico fece un passo avanti, come se volesse accompagnarlo, ma lui lo fermò.

“Va tutto bene,” disse, poi lo lasciò andare. Ma non andava bene. Neanche lontanamente. C’erano sole poche persone fuori dalla sua quadra di cui gli importasse davvero. Era successo qualcosa a sua madre? Non riusciva a pensare ad altri che a lei, l’unica famiglia che gli fosse rimasta, ed era profondamente sbagliato che il comandante fosse lì per riferire brutte notizie.

Percorse i pochi passi che lo separavano dall’ufficiale. Un uomo alto e imponente, con lineamenti che sembravano scavati nella pietra, il comandante Finch non era arrivato a ricoprire quel ruolo perché era una persone gentile. Era tensione, passione e lealtà in un’unica, maestosa presenza.

“Capo Kinnon.”

“Signore.”

“Vieni con me, figliolo.”

Solo l’addestramento e l’abitudine a eseguire gli ordini senza fare domande gli impedirono di piantarsi nel mezzo di quella stramaledetta pista e pretendere immediatamente delle risposte. Raggiunsero una porta e ci passarono attraverso arrivando in un angolo semibuio di un largo hangar. Il chiarore era però sufficiente per vedere la compassione sul viso del comandante.

“Mi dispiace di dover essere io a darti la notizia, Joseph, ma mentre eri in missione in silenzio radio, la tua sorellastra se n’è andata.” 



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